Dio salvi il Roast Beef! - Federico Francesco Ferrero
/

Dio salvi il Roast Beef!

L’Artusi conobbe in Toscana, dove due secoli fa svernavano le famiglie della nobiltà britannica, l’arrosto all’inglese, una delle icone intoccabili della cultura anglosassone più tradizionale. E divulgò agli italiani, amanti degli arrosti dimenticati in casseruola, la tecnica di cottura al forno che permette alla carne di rimanere rosa all’interno ma priva di sangue.

Il segreto è sigillare bene su tutti i lati, facendolo rosolare in padella a fuoco vivo, il pezzo di manzo, opportunamente legato e massaggiato con sale, senape, farina e altre spezie. Quindi va posto a cuocere in forno ben caldo, trentacinque minuti per ogni chilo di carne. Ma il vero trucco consiste nel lasciarlo riposare coperto, per trenta minuti, dopo averlo estratto dal forno. Se la temperatura al cuore sarà di 52°C e quella esterna di venti in più, avrete compiuto un capolavoro.

Ma non vi arrischiate a servire a un suddito della Regina un arrosto ben cotto, perché col roast beef non si scherza. Addirittura Henry Fielding, scrittore simbolo del Regno Unito, autore del romanzo settecentesco Tom Jones, inserì nella sua “Grub Street Opera” l’ode “The Roast Beef of Old England”, che diventò poi nei secoli una ballata patriottica. E col medesimo nazionalismo gli inglesi rispondono ai francesi che li apostrofano con il termine stereotipico “rosbif”, chiamandoli “mangiatori di rane”.

Il manzo arrostito è da sempre, nelle case della nobiltà di campagna, la portata principale del “Sunday roast”, la cena della domenica, rigorosamente consumata tra le cinque e le sei del pomeriggio. Viene servito assolutamente caldo, spesso porzionato al tavolo dai domestici, con patate arrosto, patate schiacciate, verdure bollite, rafano, “gravy” –salsa ottenuta dalla riduzione dei succhi di cottura- e il mitico “Yorkshire pudding”, una specie di ciambella di uova, farina e latte, cotta in forno. L’uso di servirlo freddo si riferisce alla parsimoniosa usanza d’oltremanica di riutilizzare gli avanzi. Il roast beef veniva riciclato a fette per la cena del giorno successivo, finemente sminuzzato –hachée in francese- nel “breakfast hash”, o tritato insieme a tutto il proprio contorno e ricoperto di soffice purea in un robusto piatto unico contadino: la “shepherd’s pie”.

In Italia il vero roast beef è introvabile. Per un’esperienza vagamente simile si può provare in qualche buffetteria triestina il prosciutto cotto in crosta di pane, servito con il crèn grattugiato al momento. Ma davvero siamo lontani dal cerimoniale gastronomico vittoriano che la globalizzazione sta cancellando perfino nell’inossidabile Inghilterra. Dio salvi il Roast Beef!