Le feste comandate non lasciavano molto spazio alla fantasia.
La data procedeva immutata per secoli e il piatto tradizionalmente cucinato per la festa ripeteva incorrotta la medesima ricetta. Di generazione in generazione si ribadiva così un orgoglioso egualitario senso di appartenenza in grado di mitigare la conflittualità sociale e di sottolineare indirettamente la superiorità dell’aristocrazia dinastica, civile e religiosa.
Le ricette partivano dai migliori ingredienti del territorio, che venivano preparati “a festa” come eccezione alla penuria del quotidiano: agnolotti turgidi di carne, dolci con abbondanza di uova e di zucchero, zuppe ricche di pesci inconsueti.
Poi sono arrivati la televisione e i social a svuotare le chiese, a mandare in pensione cravatte e cappelli della domenica, a ricacciare in cantina il vino nuovo per sostituirlo con bevande d’importazione e a barattare la cucina tradizionale con bancarelle di non meglio identificato street food.
Arancini fritti surgelati, hot dog di dozzina, hamburger con salse industriali, sushi con insipido salmone d’allevamento, apocrife salsicce del boscaiolo, in riva al mare, fritti di pesce oceanico, in montagna, innaffiati, al ritmo della trap, da fiumi di birra dell’Oktoberfest e da cocktail fluorescenti, hanno mandato in pensione in un colpo solo la banda, i balli a palchetto, i gusti delle nonne e le produzioni più pregiate delle nostre campagne.
Sarebbe invece auspicabile sperimentare una celebrazione coeva, utilizzando in maniera nuova le materie prime del territorio, senza dimenticare la riproposizione dei piatti ancestrali, sancendo la nascita di una tradizione contemporanea invece di adagiarsi in un’epoca moderna dalle radici incerte e dai sapori insipidi.
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