C’era una volta, circa 4000 anni, una piccola regione della Cina, dove due tribù scesero in guerra per stabilire la tecnica di cottura più adatta a preparare i loro famosi ravioli. Ma all’epoca il sovrano prendeva la cucina piuttosto sul serio e, radunati i cuochi di corte, risolse, tagliando un paio di teste, quelle dispute di campanile. Fece poi redigere ai cucinieri reali un manuale molto chiaro.
Il suo palato raffinato adorava assaporare un pasta leggera, fatta solo di acqua e farina, che si scioglieva in bocca liberando la potenza esplosiva del ripieno. Questi speciali “won-ton” che, unici tra i ravioli, non contenevano nel ripieno verdure che potessero conservare un po’ d’umidità, se estratti dall’acqua diventavano fragili, perdevano il prezioso liquido che ne umettava la farcia, e smarrivano tutta la propria soave grazia. Si decretò allora che venissero serviti sempre in brodo. Il gran maestro dei banchetti spiegò, che un ripieno che conteneva carne di maiale, si asciugava facilmente se non era immerso nel brodo di pollo e risultava troppo salato rispetto alla pasta. Tutti ne presero nota e per i successivi tre millenni tutto andò per il meglio.
Venne un giorno in cui in Italia, in quel lembo di terra compreso tra la grande strada e il grande fiume, la gente iniziò ad accapigliarsi sulla ricetta del ripieno dei tortellini. Ma visto che si trattava di un paese molto democratico, e anche un po’ individualista, ogni famiglia elaborò la propria personale miscela. Dopo un centinaio d’anni di apparente calma, fatta eccezione per un paio di guerre mondiali, il problema si ripropose riguardo la modalità di cottura e di servizio della sacra ricetta familiare: tortellini in brodo o tortellini asciutti alla panna?
In quel paese il re era stato sostituito da un presidente che aveva questioni più importanti da sbrigare. Provò allora un famoso cuoco di Modena a mettere d’accordo le opposte fazioni, cuocendo la pasta in brodo e servendola con un crema di solo parmigiano. L’idea era ottima e il risultato era molto appetitoso, ma molti ancora non erano convinti. Si andò allora da un gastronomo-alchimista, che studiò attentamente il caso. Scoprì che il ripieno dei tortellini era molto sapido e concentrato. Bollendo in un brodo meno salato, la pasta fungeva da membrana osmotica, attirando un po’ di saporito liquido all’interno. Per meravigliosa magia la carne si ammorbidiva e, a ogni morso, un cuscinetto liquido teneva separata la farcia dalla pasta, facendo vibrare le papille di piacere. Quando invece i tortellini venivano scolati, il liquido defluiva e, a differenza dei morbidi tortelli di zucca, ricchi di fibra, nessuna matrice era disponibile a trattenere all’interno quell’umidità preziosa. Certo si poteva aggiungerla dall’esterno, inondando di grasso i minuscoli ombelichi di pasta, ma il popolo si accorse presto che un conto era l’effetto del brodo dentro, un altro quello della panna fuori. Si pensò allora di far tesoro della lezione cinese e, tagliando un paio di teste, risolvere la disputa.
Ma per fortuna in Europa i libri non erano ancora stati bruciati e si era capito, anche a tavola, il valore della libera opinione e, aggiunse il dottore, del metodo scientifico empirico. Si radunò allora un gran consesso e si cucinarono i tortellini in entrambe le maniere e, ad occhi chiusi gli occhi, si provò a capire quali sprigionassero il piacere più grande. E la scelta cadde su quelli raccolti col cucchiaio dall’acqua di cappone in cui, una mano apocrifa, aveva lasciato cadere una goccia di vino rosso. Perché, se si ha il coraggio di provare, si scopre senza dubbio che è nel brodo la felicità primitiva del gusto.