Mense - Journal - Federico Francesco Ferrero
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Mense

Cara Signora Maria, ci sono andato davvero a scuola di Sua nipote, quella piccola, non se l’è inventato.

Ci sono andato a parlare di cibo, di verdure.
Sì, grazie, lo prendo il caffè.

Lei se la ricorda la mensa della scuola? Nel mio collegio si mangiava malissimo. Ho ancora in mente l’odore ributtante delle cucine, che non aveva nulla a che fare con i profumi meravigliosi che salivano dalle pentole di mia nonna.

Ma davvero si mangia così male nella ristorazione collettiva? Dipende dai punti di vista. Nella mensa della sucola di Sua nipote il cibo non era meglio di quando i calzoncini corti li portavo io: la pasta acquosa ma con un sugo gustoso, le verdure bollite accettabili ma con poco sapore, i bastoncini impanati preparati con un pesce che probabilmente non aveva alcun profumo neppure da crudo. Il cibo non era “davvero” cattivo, semplicemente non sapeva di nulla. E i bambini provavano una scarsa soddisfazione nel mangiarlo. Marco, svogliato, lo sbocconcella appena, Karim e Luigi lo trangugiano senza gusto, Samantha e Alice invece si concentravano sul pane, che, quando si è bambini, è sempre e comunque una gioia. Anna lascia quasi tutto nel piatto e mi dice che mangerà il panino che si è portata da casa. Matteo ha un piatto speciale di pasta in bianco e carote “è vegano” mi dice. Ma poi non sa spiegarmi bene cosa significhi. Filippo ha già buttato il contenuto del suo vassoio nella spazzatura, ma si diverte a infilare la sua forchetta nel piatto dei vicini. Quello che è chiaro è che ognuno sta pranzando per conto proprio. Non esiste la contemporaneità nell’assunzione del cibo. Quando ero piccolo le portate venivano servite una alla volta, permettendo a ognuno di deciderne la quantità, oggi vengono consegnate tutte insieme dentro a piatti di plastica, appoggiati su un vassoio di melanina rossa. Il risultato è che manca la possibilità della condivisione che, non a caso, ci rende “com-pagni” di scuola, quelli che spezzano il pane insieme, nello stesso momento. Marta e Francesco piluccano un po’ di pane e si interessano soprattutto al dolcetto.

Perché questa è l’altra novità rispetto al mio passato. In uno scompartimento del vassoio è presente una barretta di goloso cioccolato al latte, con cui le altre pietanze non possono proprio competere in attrattiva. E solo i più inappetenti o generosi lo cedono al vicino che, quando può, ne mangia almeno due, con contorno di pastasciutta. I colleghi nutrizionisti che hanno redatto le tabelle di riferimento, hanno fatto del loro meglio per dare, un paio di volte a settimana, una piccola gioia ai bambini, concedendo che una parte dei carboidrati giornalieri provenga da zuccheri semplici, di cui in realtà non ci sarebbe alcuna motivazione dietologica. Ma non potevano immaginare come sarebbe andata a finire: i carboidrati diventano, per molti bambini, l’unico cibo consumato a mensa, e altri carboidrati, da merendine, bibite e pizze al taglio, si aggiungeranno durante la giornata. Non per tutti, per fortuna. Ma quando succede è un problema.

Non è difficile capire il motivo per cui, sia allora che oggi, i protagonisti assoluti del refettorio sono sempre gli stessi: la pasta, in bianco, con il burro, all’olio, con il sugo, accompagnata da qualche insipida verdura bollita e poi polpette, petto di pollo e bastoncini di pesce. Perché il mantra di ogni mensa è il contenimento della spesa. Il che non significa comprare materie prime scadenti e cucinarle male, ma evitare carne e pesce che abbiano un costo eccessivo, e tenersi lontani dalle verdure fresche, che implicano un complesso lavoro di approvvigionamento, pulizia e conservazione e, soprattutto, generano notevoli scarti.

Ma il motivo per cui i bambini sono disinteressati al cibo della scuola va oltre il palato, che non è così esigente come il mio, anche se sarebbe “formazione” anche fornir loro educazione e esperienza rispetto al sapore. Abdul mi spiega che a casa di sua nonna, in Marocco, il cibo è una festa e si mangia tutti insieme, con le mani e un pezzo di pane, attingendo a un grande piatto comune, qui invece ognuno mangia da solo, anche se siamo seduti vicini. E’ saggio Abdul. Infatti quando anni fa abbiamo deciso di affidare a ditte esterne la preparazione dei pasti in scuole, caserme e ospedali, il cibo è diventato più sicuro –tra il resto quando mai è stato pericoloso?- più standardizzato e, secondo una visione un po’ limitata dell’economia, meno caro. Ha perso però la funzione di accudimento: quell’emozione che la cuoca, come la mamma, trasferiva all’interno dei piatti che sembrano pensati apposta per te. Il cibo è una questione di cuore più che di pancia e quando c’è amore, a ogni boccone si sprigiona la magia che, attraverso il palato, tocca i sentimenti e rende meraviglioso anche un piatto non perfetto. La spersonalizzazione ha trasformato il pasto, che era una festa, in un obbligo, pensato per dare energia invece che emozione. Per questo se ne occupano i nutrizionisti e non i cuochi.

Con la scomparsa dei cuochi interni, sono svaniti i menu legati al mercato, le variazioni concesse a chi sapeva conquistarsi la simpatia del personale di cucina, la flessibilità nelle porzioni, le piccole invenzioni a fine pasto. E’ scomparsa, cioè, la sorpresa. E, in cucina come in amore, quando viene meno la possibilità di essere sorpresi, scompare matematicamente la possibilità della soddisfazione. Giorgia mi dice che anche al suo papà non piace mangiare a mensa, in fabbrica. È già rassegnata a essere gettata fin d’ora in un sistema di lavoro-relazione-nutrimento spersonalizzante, che avrà modo di omologare e intristire definitivamente tutti questi bambini appena diventeranno adulti, privandoli dell’incontro con l’inatteso. Chi non ricorda infatti la gioia, in ufficio, di un cibo portato da casa, tirato improvvisamente fuori da un sacchetto e condiviso con i colleghi? La gioia sta proprio nello spezzare la monotonia della quotidiana ripetizione di gesti-lavori-sapori sempre uguali. E la formazione del bambino, a differenza dell’addestramento di un animale, si basa proprio su stimoli sempre diversi e non sulla ripetizione di informazioni sempre identiche che, un giorno, diventano scontate. Anche per palato. In un menu che dura sei mesi e ha una bassa variabilità e una modesta regionalità, l’esperienza culturale della tradizione e dello scorrere del tempo sono molto limitate. E questi bambini, che hanno la fortuna di sedersi alla tavola dei nonni sempre più raramente, non svilupperanno una profonda, fondamentale, memoria del gusto. Inoltre, il momento del pasto vissuto in maniera molto disordinata e, direi, irrituale, toglie all’atto del nutrirsi l’importanza specifica che ha per gli esseri umani: la costruzione della socialità. Non da ultimo se non sono le persone che hanno preparato il cibo a offrirlo, i bambini non potranno essere rassicurati a ogni boccone, dalla sensazione di essere amati a tal punto che qualcuno ha preparato un pasto proprio per loro. E, soprattutto, da adulti, penseranno che il cibo non si cucina ma semplicemente si acquista. Forse se a scuola potessero tornare le cuoche, o addirittura le nonne, coinvolte in un tuttaltro-che-folle progetto sociale, si potrebbe pensare di riportare un po’ di calore e di sorrisi in un atto reso asettico e standardizzato dalle esigenze di efficienza e economicità. E potremmo addirittura sperare di convincere i nostri figli a provare qualche verdura in più. Ma il mondo deve andare avanti, non è compatibile con questi piccoli miracoli di nostalgia. Ci sarebbe comunque ancora spazio per provare a allocare meglio le risorse umane e finanziarie assegnate alla ristorazione scolastica. Concedendo inoltre un po’ di flessibilità alle rigide regole della sicurezza alimentare e facendo qualche piccolo passo indietro sulle normative degli appalti, a favore del buon senso, si potrebbe provare a ri umanizzare il momento del pasto e a riportarlo a una funzione sociale prima che nutrizionale. Potremmo così scongiurare il rischio di vedere in mensa ogni giorno dei bambini molto tristi, che diventeranno degli adulti, di certo, meno felici.