Per risultare davvero inclusivo l’auspicio del “cibo per tutti” deve affiancare, al concetto di sostenibilità e di salute, anche quello di sapore.
Sta infatti diventando sempre più evidente la correlazione tra potenziale aromatico e valore nutrizionale di un alimento. Non a caso gli animali affidano la ricerca del cibo all’olfatto e non alla vista. Nel mondo vegetale, ad esempio, la ricchezza aromatica si ottiene producendo in campo senza aiuti ed attendendo la maturazione, perché se la pianta si aiuta da sé produce un maggior numero di componenti sia di valore organolettico sia alimentare, che si traducono per i consumatori in minor suscettibilità alle malattie e maggiori opportunità di sviluppo fisico e neuroendocrino.
Il vero slogan dovrebbe quindi essere: “quale cibo per tutti?”.
“Quale” indica la necessità di rivedere le modalità di approccio agli alimenti, dal campo alla tavola, che già trova molti spunti virtuosi nelle iniziative di diverse associazioni, Slow Food in primis, come nelle azioni del Comune di Torino promosse dall’Assessora Foglietta.
Ma “tutti” prevede la necessità di superare l’utopia del piccolo è bello, per fare i conti con la produzione intensiva degli alimenti, la loro trasformazione a livello industriale e la distribuzione organizzata. Se si vuole raggiungere la vera inclusione alimentare è proprio su questa filiera, che riguarda oggi la maggior parte del cibo prodotto e consumato dagli individui che non siano dotati di abbondanti risorse economiche o di peculiare passione, che devono concentrarsi le azioni di cambiamento, le osmosi tra pratiche contadine di eccellenza e gli standard di sicurezza e organizzazione propri dell’industria. Anche in termini di sostenibilità, è la produzione di massa a generare la maggior parte degli sprechi, causati, ad esempio, da perdita di biodiversità data dalla monocultura, impoverimento dei suoli, elevate percentuali di scarto in campo e nei punti vendita. Come è nelle mense scolastiche, negli aeroporti, negli autogrill, negli ospedali, nelle aziende e nella maggior parte dei bar della pausa pranzo, che non viene messo a disposizione cibo ricco in sostenibilità e salute e, soprattutto, in sapore. Questi sono quindi gli ambiti su cui agire con urgenza. E questo percorso può mettere in moto enormi opportunità per la città e per la regione.
Proprio per raccogliere questa sfida è nata Torino-Piemonte World Food Capital, che, aderendo ai principi dell’agenda sostenibilità ONU, si prefigge di creare un tavolo di lavoro permanente che metta a sistema formazione e ricerca, cultura, industria, agricoltura, artigianato, ristorazione, commercio e ospitalità, superando le logiche di promozione dell’eccellenza gastronomica e intendendo invece il cibo come motore di un’economia in grado di garantire posti di lavoro, aprire nuovi scenari di ricerca, attrarre investimenti, dare una nuova identità solida e inclusiva a Torino e al Piemonte, affinché questo territorio sia identificato come un leader capace di coniugare, stimolare e condividere innovazione con le altre comunità del cibo italiane ed europee. Il termine Capitale ha proprio lo scopo di coagulare attorno a un sogno ambizioso la totalità della filiera e dei cittadini, in analogia a quanto promosso dall’UE con le politiche di finanziamento ai “city branding”, intese infatti come strumenti di inclusività sociale e non solo di promozione territoriale.
Mi auguro che questa visione, su cui lavoriamo da oltre otto anni e su cui abbiamo raccolto centinaia di dati, disponibili sul nostro sito, possa aggregare, eventualmente attingendo anche ai fondi del PNRR, Città di Torino, Regione, corpi intermedi, università, associazioni e cittadini, per un rinascimento territoriale che non escluda nessuno, perché Torino e il Piemonte hanno urgente bisogno di disegnare il proprio futuro e, senza dubbio, il futuro è il food.
Federico F. Ferrero