Kamut - Lettere a Federico Francesco Ferrero
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Kamut

Egr. dott. Ferrero, ho cinquant’anni, ho scoperto la celiachia da due anni e un mia amica sostiene che io possa mangiare la farina di Kamut senza rischi. Sto tranquilla?

Maria


Gentile Signora, come ho già avuto modo di scrivere la scorsa settimana su un altro quotidiano, quella del Kamut è una favola, a cui credono soprattutto gli italiani. Importiamo infatti dagli Stati Uniti la maggior quantità al mondo di Kamut, quasi la metà della produzione totale. Facciamo chiarezza. Intanto “Kamut” è solo un marchio, come “Miralanza”. La varietà di cereale che si nasconde dietro a questo slogan è il Khorasan o Grano Duro Orientale, perché in epoca moderna era coltivato negli altopiani dell’attuale Iran. Veramente, col nome di Saragolla, fin dal Medioevo, cresce anche, lontano dal clamore, nelle valli dell’Abruzzo teramano.

Si racconta che i chicchi sarebbero stati rinvenuti addirittura nelle piramidi. Purtroppo non è possibile. Perché, a differenza di tutte le specie ancestrali, i cui chicchi sono “vestiti” di tenaci tegumenti, le glumelle, il chicco del Kamut è “nudo”. Si tratta quindi di una specie relativamente moderna e non catalogabile come “antica”. Il contenuto di glutine è poi leggermente superiore a quello degli analoghi cereali, mentre gli altri valori nutrizionali sono assolutamente identici.

Trovatomi a collaborare con il Museo Egizio di Torino, ho invece potuto riscontrare che il vero cereale dei faraoni era il Farro Monococco, il cui contenuto di glutine è bassissimo, il chicco è “vestito”, e la spiga alta, da non confondere con il i farri moderni. Sulla diagnosi di celiachia in età adulta poi, come ho già avuto modo di ricordare molte volte da queste colonne, sarei molto prudente.