El Celler de Can Roca - recensione di Federico Francesco Ferrero
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El Celler de Can Roca

Per esorcizzare la mia nota avversione per i lunghi menu degustazione, per la cottura sotto vuoto a bassa temperatura e per l’affumicatura estemporanea, ho deciso di pranzare nel luogo che tutte queste cose le ha praticamente inventate. Tra i dieci ristoranti migliori del pianeta, tre Stelle Michelin da quasi dieci anni, al vertice della, seppur poco oggettiva, classifica dei 50 Best Restaurants, punto di riferimento per gli chef di mezza Europa, che non di rado lo scelgono per festeggiare il proprio compleanno, El Celler de Can Roca è l’icona della cucina degli anni Dieci del XXI secolo. Grazie all’interessamento di Giorgio Grigliatti, padre putativo di tutti i gourmet italiani, non solo torinesi, la proverbiale lista d’attesa di dodici mesi si è ridotta a dodici giorni e sono partito per Girona.

AMBIENTE

Girona, orgoglio della Catalogna, in tempi moderni nota per il ristorante El Bulli, ora chiuso, del geniale Ferran Adrià, propone duemila anni di storia nell’impeccabile centro storico e un esteso parco fluviale di selvaggia bellezza. Ma El Celler sorge in una zona moderna e anonima, a pochi passi dal ristorante di famiglia dove i tre fratelli Roca mossero, sotto la guida della madre, i primi passi verso l’eccellenza. L’architetto e il buon gusto hanno saputo però creare calore e naturalità pur in mezzo al cemento. Si percepisce appena qualche comprensibile segno di stanchezza, in un ristorante aperto cinque giorni su sette, da mezzogiorno alle due di notte, senza soluzione di continuità. Il giardino potrebbe essere meglio spazzato, qualche sbeccatura nei mobili in sala, alcune briciole di troppo sui tappeti e sugli oggetti di design su cui viene servita la maggior parte del cibo, certe divise dei camerieri stazzonate e alcuni dei pleonastici coprimacchia dei tavoli non sempre perfettamente stirati. Ma sono dettagli. Il giardino di betulle ricreato al centro della sala è di una grazia ineccepibile, i tavoli distanti garantiscono tranquillità a ogni ospite e tutto l’ambiente ha un’acustica perfetta, correttamente priva di musica.

IL SERVIZIO

I camerieri, giovanissimi e di varie nazionalità, seguono con precisione, sorrisi e estrema gentilezza ogni momento del pranzo. Il ragazzo che si occupa dei vini è preparato e appassionato ma forse manca di quella sensibilità che si può mettere a fuoco solamente con anni di esperienza (ristoratori nostrani prendere nota). Ha però la fortuna di pescare in una cantina di oltre tremila referenze, presentate con ricarichi bassissimi, a un prezzo inferiore a quello di molte enoteche italiane (ristoratori italiani annotare anche questo). Ogni piatto viene minuziosamente raccontato prima dell’assaggio, indicando con la mano le varie componenti e istruendo sulle modalità di degustazione. Nulla di diverso da qualsiasi ristorante di questo livello ma questo descrittivismo, che ritengo sempre e ovunque inutile alla soddisfazione del gusto, diventa qui a volte addirittura farraginoso per la complessità delle preparazioni. L’entusiasmo comunque, che non manca mai in sala, e i rapidi tempi di reazione a qualsiasi richiesta, dimostrano che il personale è magistralmente guidato e istruito.

Il primo piatto è composto da una serie di piccoli assaggi che ricostruiscono in miniatura i piatti tradizionali di cinque diversi Paesi del mondo. Vengono appoggiati su un meccanismo a ingranaggi che, se si abbinano correttamente piatto e nazione, fa aprire il mappamondo centrale, esponendo un ulteriore boccone. Il gioco potrebbe anche essere divertente ma, per strappare una risata, dovrebbe prevedere la possibilità di poter perdere. E la lunghissima spiegazione di ogni singolo boccone è uno dei riti più noiosi a cui abbia assistito in un ristorante. Inoltre il tributo ai piatti della memoria, anche quando lo metta in pratica Massimo Bottura, funziona a una sola condizione: che si abbia fissata nella mente la “madeleine” che si vuole stimolare. Diversamente resta un esercizio fine a se stesso, tanto per i piatti catalani destrutturati quando per la lasagna rivisitata dell’Osteria Francescana, che nessun giapponese potrà mai confrontare con quella della propria infanzia. Il percorso procede poi con il supporto di una serie di stoviglie e oggetti progettati per ogni singolo assaggio. A volte la sensazione è che il contenitore sia più importante del contenuto. Ma il palato quasi sempre vanifica questo dubbio.

LA CUCINA

Perfezione è la parola che contraddistingue ciascun boccone. Maniacale è l’aggettivo che completa l’offerta dei quindici diversi piatti di aperitivo, grandi quanto un gheriglio di noce, in cui decine di ingredienti vengono bilanciati in maniera impeccabile. Al termine delle oltre trenta portate sarà comunque quasi impossibile non solo ricordarle tutte ma anche collocarle correttamente accanto alla lista del menu consegnata all’uscita. Rimanere seduti a tavola per cinque ore, stimolando i sensi con una media di duecento ingredienti diversi, dieci vini in abbinamento e porzioni talmente piccole che mai viene consegnato un coltello durante tutto il pasto, è probabilmente una fatica superiore alla capacità percettiva di qualsiasi essere umano. Il pasto inoltre prevede praticamente solo grassi e proteine, e le verdure, richieste in aggiunta, sono rappresentate da una cucchiaiata di pisellini novelli, impagabili, conditi con burro e tartufo nero, che compaiono pure in molti altri piatti.

La cifra gustativa complessiva di tutto il percorso non è quella della freschezza ma della morbidezza, pur ben bilanciata da accenti di acidità e croccantezza. Il livello tecnico è altissimo, non c’è nessun dubbio, come la ricerca degli abbinamenti. Ma questo traguardo rappresenta ancora il futuro della cucina o è già il passato? O forse l’avvenire della ristorazione sarà legato maggiormente a tempi più umani, materie prime fresche cucinate al momento, molte verdure dell’orto pulite e lavorate da una grande brigata, piatti costruiti dallo chef sulle preferenze del cliente? Il piatto perfetto, di routine, col proprio supporto di design dedicato rasenta la freddezza della ripetizione commerciale o possiede ancora un contenuto di, seppur seriale, emozione? O forse la soddisfazione nel gusto sta nella sorpresa della piccola imperfezione che appartiene all’estemporaneo, alla cucina espressa, al piatto in divenire, al capolavoro che esiste solo in quell’istante? Credo che i fratelli Roca ci stiano già ragionando. E i cuochi di tutto il mondo continueranno a copiare da loro.

Provato a pranzo il 20 gennaio 2018