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Enrico Bartolini

Una sottile differenza distingue il ristorante “di” un museo da un ristorante “in” un museo. Al Mudec, Museo delle Culture di Milano, è stata preferita la seconda opzione. L’architetto David Chipperfield ha trasformato l’ex area industriale dell’Ansaldo in una struttura leggera e luminosa, che pone in relazione le vestigia industriali dell’area di Via Tortona, con i reperti della cultura etnografica extraeuropea. Ma purtroppo la collezione permanente non dialoga in alcun modo con gli arredi e il menu del ristorante. Nulla di male. Si tratta di scelte. Forse però il percorso di accesso al ristorante poteva essere segnalato e valorizzato in maniera più attenta. Le toilette al piano inferiore invece, in comune con l’esposizione, sono una scelta molto discutibile. mentre è inaccettabile non trovare un membro della brigata ad accogliere i clienti sulla soglia del ristorante. E ancora una volta il servizio si dimostra il vero tallone d’Achille della ristorazione italiana. La tovaglia è stirata in maniera approssimativa, il primo cameriere che mi porge la carta dei vini dimostra di non conoscerla affatto, una bottiglia che non ha retto l’invecchiamento con la consueta classe, viene avvicendata con un’altra, che tra il resto costa quasi il triplo, in maniera un po’ troppo sbrigativa, senza informarsi davvero sulle mie preferenze: non si fa. La scelta dell’acqua viene richiesta due volte. Con involontario umorismo mi domandano un giudizio sul sapore degli stuzzichini, che giacciono però visibilmente intonsi di fronte a me, in attesa del vino, stappato da cinque minuti e non ancora versato. I camerieri sono distratti e imprecisi e, soprattutto, prima che venga in soccorso lo chef al tavolo, è molto difficile farsi aiutare nella scelta dei piatti. Inspiegabilmente, prima del caffè, vengono rimosse dal tavolo sia le bottiglie di vino, ancora piene per metà, sia il calice del mio commensale.

L’ambiente è molto rumoroso, dai toni freddi di terra e di pietra, e l’unica presenza viva è la calla fresca sul tavolo. Ma il colore c’è, nel piatto. Le creazioni di Enrico Bartolini sono impeccabili dal punto di vista formale: piatti luminosi, scintillanti, perfetti dal punto di vista cromatico, lucidi e tridimensionali. Chiedo se ci siano in carta dei piatti con verdure di stagione. Ma il vegetale non fa parte di questa cucina. O meglio, è a parte. É presente infatti un menu vegetariano, da cui lo chef mi propone, con grande garbo, un paio di piccole porzioni. Gli chiedo poi quale sia il suo concetto di cucina e mi risponde semplicemente che un piatto deve “essere buono”. Peccato non averlo rivisto a fine servizio per un confronto, come sarebbe stato corretto.

Tra gli assaggi offerti prima del pasto —che ritengo andrebbero sempre aboliti o ridotti a uno soltanto, per poter gustare appieno ciò che si è davvero desiderato e ordinato— spicca una Caramella croccante di cipolla rossa, foie gras e mango, memorabile per equilibrio ma anche per persistenza di gusto che, ribadito dai grissini, anch’essi alla cipolla, che accolgono i clienti al tavolo, rischia di caratterizzare il palato con una nota greve, difficile da allontanare. La Patata soffice, uovo e uova, sconta la poca sapidità della materia principale, il tubero. I Gamberi di Santa Margherita in due passaggi vengono serviti modellati a guisa di mandorla, con mandorla fresca e bisque, e non portano a pensare al mare ma piuttosto a uno stereotipato oriente, e sono purtroppo mortificati da un cuore freddo di frigo. Poi arriva la seconda variante, a doppia cottura: gambero intero con schiena pulita e cruda ma zampe fritte e croccanti. Così descritto, e ancor più nell’impiattamento, sembra un boccone da necrofagi. Ma questa contrapposizione di consistenze, che rimbalza tra la vita e la morte, unita a un’esecuzione impeccabile, ne fanno una ricetta straordinaria per idea, aspetto e sapore. É di certo solo un incidente l’intestino rosso dimenticato nella coda. Le Alici di scoglio in incontro di saor e carpione, imbottite di cipollotto fresco e verniciate di un gel di carpione legato con agar agar, scintillano sul piatto come se fossero appena state tolte dalla rete. I bottoni blu mare di cavolo rosso ossidato, compattato dalla colla di pesce, sono bolle d’acqua su una sensazione di battigia resa ancora più verosimile dalla foglia d’erba ostrica. Non si smetterebbe più di mangiarne. L’alga del gomasio, che completa il piatto, invece è un di più. E i capperi disidratati sono duri e immasticabili. Stupisce che un piatto in carta da molti anni non abbia progredito nell’evoluzione nel senso del levare invece che dell’aggiungere, verso quella pulizia che ne farebbe un capolavoro. Il piatto principale è un altro grande classico dello chef: Bottoni di olio e lime al sugo di cacciucco e polpo cotto alla brace. Il brodo di pesce qui è concentrato, viscoso, tendente alla sensazione del fondo di cottura. Un boccone senz’altro goloso e di grande sapore ma di una grevità non trascurabile. Forse un assaggio sarebbe sufficiente. Infine, alcune tra le verdure, come l’Asparago verde con maionese di capperi siciliani e panure, mancano di freschezza, latitano nel sapore e si accompagnano a troppi grassi. Una certa impostazione classica, che porta la cucina a scommettere sulla concentrazione del sapore invece che sulla leggerezza della complessità aromatica, è confermata dalla mancanza di levità del Gelato alla rosa bulgara finale.

Il giudizio su un ristorante non si basa solo sulla cucina e, questa volta, il servizio è risultato mortificante. Ho comunque assaggiato alcuni grandi piatti in una cucina che manca di un ultimo slancio verso la modernità e che forse potrebbe trovare qualche interessante suggestione nella sottostante esposizione museale.