Abbiamo invocato i ristori per i ristoranti. Li abbiamo sostenuti provando il delivery. Abbiamo atteso con trepidazione che riaprissero. Ma oggi le migliaia di sedie e di tavoli sparsi sui marciapiedi e le piazze d’Italia, solo in minima parte appartengono a ristoranti intesi nel senso tradizionale del termine, cioè locali dove un cuoco o una cuoca trasformino cibo fresco in un pasto completo servito al tavolo.
Questo avviene in osterie e trattorie mentre non possono considerarsi ristoranti tradizionali: le paninerie; i locali di ispirazione etnica, che rigenerano o assemblano cibo in busta; le attività dove si serva un’unica specialità; e perfino la pizzeria, format che amiamo visceralmente, ma che non è un vero ristorante. Ristoranti non sono i tapas bar e neppure le vinerie di lusso.
Non sono ristoranti le piadinerie e nemmeno i locali che preparano agnolotti da asporto, le hamburgherie, i sushi bar, le insalaterie e i nuovi spot del poke bowl, che ormai spuntano ovunque ci fosse un’altra insegna. I ristoranti, paladini di condivione di cibo e di pensieri, icone del sapore italiano a tavola, stanno chiudendo nell’indifferenza, fagocitati dalla fretta di consumare, mortificati dagli affitti, che impongono di aumentare il numero di coperti, snobbati dai clienti, che non distinguono più il cibo cucinato da quello rigenerato, spinti all’angolo dalle mode e oggi messi a dura prova dal virus.
Nei centri storici della maggior parte del Paese, i ristoranti sono stati sostituiti da altre attività. Nella fretta di riaprire non ci siamo accorti che una fetta l’Italia del cibo era scomparsa.
Da La Stampa del