Ho camminato per la città deserta, all’ora di cena, incrociando volti senza labbra, sguardi sfuggenti, occhi senza sorrisi, passi che affrettano, incroci senza auguri.
Ho percorso una via crucis di ristoranti senza luce, tra le reliquie di plateatici abbandonati, bar senza vita, trattorie senza profumi. Quando i sipari d’acciaio calano anche sulle vetrine dei negozi, a presidiare ogni via restano solo le insegne dei fast food dove lavorano umani con la vita altrove, assuefatti all’olezzo di fritto, che presto saranno avvicendati da servitori robot. Ho scansato a fatica i velocipedi in contromano, spinti da marsupiali dorsali che portano la sbobba, miscelata dai salti sul pavé, nelle case illuminate da lampadine bianche e schermi fluorescenti.
La pandemia ha strappato il velo della caverna e ha mostrato la nudità dei nostri centri storici, ricettacoli disumani di cibi globalizzati, che si alternano a marchi di abbigliamento altrettanto impersonali. La distopia gastronomica da metropoli nordamericana sta inculcando la convinzione che l’esperienza di ambiente, servizio e convivio sia secondaria alla ricetta. Così la spunterà alla fine il cibo finto dalle mistificate ascendenze etniche, basta che sia nuovo e caldo.
Anche nell’interesse dei professionisti della tavola, che si accorgeranno troppo tardi che stanno facendo il gioco del diavolo, gli unici atti di resistenza possibili per l’anno nuovo, saranno cucinare a casa qualcosa di vero e rinunciare all’asporto, aspettando di poter tornare al ristorante dove l’emozione è frutto di persone e non di piatti.
Da La Stampa del