Sono fissato con le rape fin dal Liceo.
Nel Cinquecento Ludovico Ariosto è costretto dalla contingenza a prestare servizio nella sontuosa dimora di Ippolito d’Este.
Rimpinzato dagli opulenti banchetti di corte, ma intristito dalle meschine vessazioni imposte dalla cieca obbedienza al padrone, in quella galera dello spirito, si interroga sull’opportunità di barattare l’indipendenza col benessere
A casa mia mi sa meglio una rapa, ch’io cuoca, e cotta su ‘n stecco me inforco e mondo, e spargo poi di aceto e sapa.
Questi probabilmente sono i versi che per primi hanno acceso la mia curiosità gastronomica. Non trovavo infatti del tutto esauriente la parafrasi di Fratel Dante, il mio professore, che spiegava come il peggiore dei cibi gustato in libertà risulti più gustoso di una raffinata pietanza assaporata in catene. Concetto condivisibile ma per me non esaustivo.
Ariosto credo provasse un piacere goloso nel riportare alla mente e alle papille quel cibo che riteneva eccellente se ben cotto e condito con grazia. E così cerco da anni di seguirne le orme con alcune accortezze: procurarmi le rape di un contadino disinteressato alla quantità, pelarle con cura, sbollentarle, prima di qualsiasi cottura, in acqua salata e acidulata, e non rivelarne la presenza nel piatto né agli adulti né bambini, che al mio desco ne fanno abbondanti scorpacciate, vergognandosi di essersi sempre rifiutati di assaggiarle prima.
Quest’inverno magari provate a ricredervi sul sapore della cultura classica e su quello delle rape dell’orto.
Da La Stampa del