Finalmente sono maturati, anche fuori serra, i tanto agognati frutti rossi dell’amore, i “pomme d’amour”, i pomodori. E, come spesso succede nella chimica degli incontri col naso e col palato, è una questione di pelle.
Si può mangiare, cruda, la pelle sottilissima, delicata, evanescente, dei Cerrato o Cuore di Bue.
La pelle dei pomi del supermarket, prodotti con l’agricoltura intensiva, non pone imbarazzi: è inodore e talmente tenace al morso che riuscirà nell’intento di distrarre dalla totale mancanza di gusto del frutto.
Crudi o cotti, gli chef amano spellare i pomodori e proporre nudi i filetti, ma questo è uno di quei casi in cui la carne, quando è cruda, credo faccia maggior figura vestita, perché la pelle sotto ai denti rinforza la croccantezza.
Invece, per quanto abbiamo spesso provato a convincermi del contrario adducendo alcune ricette tradizionali a proprio sostegno, il pomodoro da cuocere va spellato. Come qualsiasi frutto avvolto da cellulosa, quali piselli, fave e ceci. Quando l’ambiente si scalda, spesso senza vestiti c’è più gusto. La pelle del pomodoro col calore si stacca dalla polpa, si ritrae e diventa plastica, plastica vegetale: indigeribile, insapore, inattaccabile dai denti.
I frutti baciati dal sole, privati di pelle e di semi, diventarono passata nel Settecento e incontrarono la focaccia, il formaggio, l’olio e la pasta di semola. Da questo genuino matrimonio d’amore, consumato a nudo senza vergogne, nacque lo stereotipo che nel mondo è conosciuto come “cucina italiana”. Cosa aspettate a fare l’amore con l’estate?
da La Stampa di lunedì 1 agosto 2021
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