Quando il Governo difende la pesca a strascico, che l’Europa vorrebbe vietare, è come quando strizza l’occhio a evasione fiscale, abusi edilizi, crimini contro il paesaggio: per accontentare i pochi, oggi, mette a repentaglio il futuro dei molti, compresi i figli delle categorie che vuole blandire, domani.
Il nostro mare è sempre più scarso di pesce, con conseguente aumento dei prezzi, che lo hanno reso ormai un prodotto di lusso, e sempre minor ricavi per i lavoratori del comparto. La colpa è anche del pescatore, l’anello debole della catena, che non si arricchisce, ma che è ugualmente artefice del depauperamento del mare.
Non mi riferisco a quei quattro gatti che pescano in apnea due cernie a stagione o a chi pratica la pesca sportiva, che porta a casa una ricciola ogni tre uscite.
Parlo dei professionisti che pescano a strascico, dragando il fondo del mare, distruggendo qualsiasi forma vivente ed essendo costretti a ributtare in acqua, morta, quasi l’ottanta per cento della cattura, perché senza mercato o fuori misura. Dove passano quelle reti, soprattutto le più aggressive e per passaggi successivi, non cresce più vegetazione per anni e nessun pesce per decadi. L’ho constatato molte volte con i miei occhi.
Analogamente alla sparizione del gambero rosso in Sicilia, che i pescatori sono spinti ad andare a cercare sulle coste libiche e tunisine, a rischio della vita, che è un capolavoro di insensatezza.
Esiste però una pesca sostenibile, praticata con tecniche tradizionali, con nasse, reti da imbrocco, palangari, reti da circuizione, che preserva il mare, garantisce un prodotto che, se certificato, può spuntare prezzi maggiori, e soprattutto che non mette a repentaglio la fonte di guadagno di chi la pratica. Forse dovremmo difendere quella.
Da La Stampa del