Delle mie merendine di Ferragosto sugli, allora, verdi prati montani mi mancano le “melanzane alla Scapece”: tagliate a rondelle finissime, spurgate dell’amaro con pazienza e sale grosso, cotte in forno, conciate con una marinatura di buon aceto di botte, aglio e menta fresca e lasciate riposare almeno una notte.
Mi sono chiesto per anni l’origine del termine per scoprire che non era altro che la nostra storpiatura di bambini dell’originale spagnolo “escabeche”. Scabeccio, scapece, scapec, sciabeccu, scaveccio, escovitch… Sono solo alcune delle corruzioni linguistiche del termine persiano che indicava una salsa all’aceto nota fin dall’anno Mille nei territori controllati militarmente o commercialmente dai Mori, con buona pace di molti comuni del Centro e Sud Italia, che hanno voluto addurre fantasiose ascendenze romane per questa ricetta assunta nella loro tradizione.
È nella stretta relazione tra arabi e spagnoli che risiede l’origine e il mistero di una serie di piatti a base di aceto, adatti essere conservati, tra cui la nota caponata, che da popolari diventarono principeschi per tornare cibo da marinai e boccone da baroni quando, scomparsi nordafricani e iberici, arrivarono nelle cucine borboniche i “monsù” di scuola francese. Appresa l’arte della frittura, che non era appannaggio del popolo, parco con l’olio, inserirono pesci e carni impanate nei piatti basati sulla marinatura.
E così che la scabece, araba di nascita, spagnola d’evoluzione, andata e tornata in America del Sud con gli esploratori portoghesi e ispanici, divenne sinonimo di fritto conservato in un intingolo di aceto, spezie, pinoli, uvetta, aglio o cipolle.
Come accaduto per le veneziane sarde in saor, da consumarsi però, secondo tradizione, al Redentore e non a Ferragosto.
Da La Stampa del