Sono andato in Romania, terra di Dracula dove nessuno riconosce il mito del vampiro e neppure quello di Halloween, proprio per sfuggire a queste celebrazioni che considero violente imposizioni dei grandi gruppi commerciali nei confronti della maggior parte del Pianeta. E, in un piccolo agriturismo con ospiti da tutto il mondo, ho avuto la fortuna di incontrare un simpatico signore di Singapore, che mi ha fatto molto riflettere sulla globalizzazione gastronomica a cui si stanno educando le giovani generazioni.
Questo cittadino di uno dei territori più globalizzati e meno identitari del mondo, pur parlando come prima lingua l’inglese, un idioma non praticato dai suoi genitori, non possedeva un solo avverbio o aggettivo nel proprio vocabolario, si esprimeva cioè come un educato ragazzino di undici anni. E il suo interesse per il cibo era più o meno uniformato alla medesima età: esclusione di qualsiasi alimento non noto (interiora, verdure sconosciute, zuppe), interesse per qualsiasi boccone croccante (cereali soffiati, fritti, patatine), amore per i dolci scivolosi (gelati, creme, torte morbide), e affezione per qualsiasi cibo al formaggio ben gratinato nel forno (crocchette filanti, lasagne, pizza).
Come per la musica, la letteratura, l’arte e lo sport, la globalizzazione ha imposto un gusto “medio”, abbordabile, comprensibile, facilmente descrivibile senza l’utilizzo di vocaboli articolati o concetti complessi. E nella banalità del gusto non c’è posto per la complessa diversità della produzione o della trasformazione artigianale.
Se, almeno per il sapore, sostituiremo il termine “globalizzazione” con “infantilizzazione” avremo un’idea più precisa della strategia mondiale che sta modificando gusti e abitudini alimentari.
Da La Stampa del