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I funghi, un dono

Mi piaceva trovarli. Più ancora che raccoglierli. E mi piaceva portarne a casa al massimo un paio. Da mangiare cotti in padella, fatti andare sotto alla cenere in una foglia di vite, stufati con le patate e un niente di prezzemolo crudo tritato, aggiunto fuori dal fuoco, saltati in un tegame con uno spicchio d’aglio, una noce di burro e un ciuffo di nepitella, gratinati in forno con una pesca e un cucchiaino di panna. Poi l’ingordigia di raccoglitori ignoranti generò divieti e autorizzazioni per un prodotto che, sinceramente, è solamente un dono della pioggia e del sole. E mi è passata la voglia anche di andarli a cercare. Tra il resto non aveva nessun senso ammassarli perché né secchi né surgelati né sott’olio né sott’aceto, conservano la loro caratteristica principale che è l’aromaticità delicata e complessa e, anzi, concentrano l’indigeribilità delle loro tossine o perdono il proprio bouquet per diventare pura forma senza sapore. Freschissimi, mondati dalla terra con la punta di uno spelucchino affilato, passati appena con un panno di lino umido, messi in tegame, in brodo, o crudi, aggiungono un che di selvatico e prezioso a un piatto che ne sappia sostenere il vigore aromatico.

Se mi capita di camminare in un bosco e imbattermi in qualche capocchia gialla, almeno quelli, li raccolgo ancora. Una manciata, tanto per portarmi in tasca il profumo della libertà, il ricordo dell’infanzia trascorsa in montagna e l’emozione di una giornata di sole in cui mi innamorai, complice uno scorfano bollito con contorno di finferli croccanti. Perché, dimenticavo, stavo parlando dei funghi.

Da La Stampa del