La carne bovina si mangiava solo in tre occasioni:
alla festa del paese, giorno in cui la Chiesa, nell’esercizio della propria funzione di pacificatore sociale, ne comandava il consumo, che per la maggior parte dell’anno era vietato oltre che inaccessibile ai più;
se una mucca scivolava e si spezzava un arto, allorquando l’animale veniva sacrificato e venduto a pezzi tra gli abitanti della borgata, per mitigare con la colletta la sventura occorsa alla famiglia;
oppure se lo prescriveva il medico, come estrema strategia terapeutica per infondere un po’ di proteine in un corpo defedato dalla fatica e dalla fame, prima ancora che dalla malattia
Lo stesso avveniva per il vino.
Ad eccezion fatta per i climi in cui la vite cresceva con poche cure, il frutto dell’uva e del lavoro dell’uomo era un lusso riservato all’aristocrazia civile e religiosa e, non a caso, presente nei riti, dalla divinazione in epoca protostorica, alla santificazione del convivio sull’altare cristiano.
Il resto della popolazione utilizzava il vino come alimento, per darsi energia nelle marce, i soldati, e nel lavoro dei campi, i contadini. Ma si trattava di prodotti di seconda scelta e gradazione. Il vino, spesso di infima qualità, si beveva per svago una volta a settimana, in osteria, mentre quello buono, in bottiglia, “era per vendere”, per i ricchi o, appunto, prescritto dal medico.
Ho di recente raccolto il racconto commosso di una signora che ricordava l’ultima frase del nonno: “vai in cantina a prendere una bottiglia e chiamate il medico”. È curioso che, dopo cinquemila anni di osservazioni, proprio i due alimenti medicinali siano oggi considerati tanto pericolosi.
Non dovremmo interrogarci piuttosto su quanto, quando e, soprattutto, quale vino e quale carne facciano bene o male?
Da La Stampa del