Carne tritata, piselli sgranati, midollo di vitello, cervella, funghi porcini, animelle, fegatini di pollo, creste di gallo, rognone, fegato di maiale, cetriolini sott’aceto, filetto di vitello, testicoli di gallo. Non sono gli elementi di una pozione magica medievale ma gli ingredienti di una delle ricette amate da Cavour, simbolo di Torino, ormai praticamente introvabile: la finanziera. L’etimologia è varia e incerta ma mi piace propendere per la versione più romantica. Le giovani contadine preparavano ai finanzieri, di stanza alla cinta daziaria della città, un piatto fatto con le parti meno nobili degli animali da cortile. I gendarmi non disdegnavano né la cucina né la compagnia delle intraprendenti commercianti, e le merci transitavano con più facilità. L’Unità era ancora lontana ma in questa pratica c’erano già in nuce tutto il meglio e tutto il peggio dell’Italia. Il primo Parlamento era dietro l’angolo ma la Repubblica era ancora inimmaginabile e infatti la ricetta era a base di “rigaglie”, povere prelibatezze degne di un boccone “regale”, destinato agli ingordi palati di corte.
Per un’esecuzione perfetta è necessario ridurre ogni elemento, con grazia, alle dimensioni di una nocciola e friggerlo separatamente nel burro spumeggiante, sempre nuovo, in una padella di ferro. Ma il segreto è la qualità assoluta degli ingredienti complementari. Servono un’ottima farina, un brodo di verdura leggero, un aceto di vino sopraffino, e due prodotti che denotano l’influenza transalpina (il vino bianco secco e gli introvabili cetriolini sotto aceto artigianali) per essere certi di far dimenticare la divisa ai giovani ufficiali. Aggiungere una lamella di tartufo, poi, farebbe scordar loro perfino il Re.
Da La Stampa del