Ventresca di tonno in olio extravergine, vongole bollite nel loro liquido di governo, peperoni arrostiti in olio di semi, cozze in lattina sgusciate e aromatizzate con vari condimenti, peperoni sottaceto, prosciutto pre-affettato in buste di plastica, olive in salamoia, patatine in sacchetti con atmosfera modificata, carciofi al vapore in latte da litro, peperoncini ripieni.
Aprire, sgocciolare, inserire in una stoviglia stilosa, eventualmente riscaldare al microonde, a volte condire col liquido di governo (orrore!);
mettere in conto una porzione di tonno sottolio a trenta euro, una singola acciuga a tre euro, il prosciutto a quasi cinquecento al chilo;
accompagnare con due fette di pane, da pagare a parte;
servire con un sorriso e una lunga dissertazione sulla pregevole eccellenza del fornitore di scatolame.
Spendere per un pasto cento euro a testa, senza che sia avvenuta una sola operazione di cucina, non è arduo e non va meglio quando si trovino gamberi crudi decongelati, ostriche fresche d’importazione, uova di seppia comprate a sacchetti, asparagi in salamoia, crocchette di baccalà surgelate. Sto parlando di ristoranti, non di bar.
In Italia questo servizio è ancora ritenuto inaccettabile, anche se qualche locale si reputa alla moda nel servire acciughe spagnole sottolio direttamente nella scatola, ma tra poco sarà la norma, perché al ristorante non si cerca più il sapore ma l’esperienza e i locali si stanno attrezzando per eliminare l’introvabile personale di cucina, sostituendolo con camerieri apriscatole. Finché non cucineranno robot gestiti dall’intelligenza artificiale vorrei ancora poter distinguere un ristorante da una drogheria ma, si sa, sono un rompiscatole.
Da La Stampa del