I capelli biondi, raccolti nella coda di cavallo, ondeggiano ritmicamente mentre Martina ruota il capo inspirando a occhi chiusi. Tuffa il naso nella cesta e lo affonda tra le mele dell’orto, piccole, colorate, opache, alcune puntinate, altre difformi, che, emerse dal freddo della cantina, a due mesi dal raccolto, ritornano in vita liberando un effluvio di bacche rosse, petali di rosa, piccoli fiori.
Estrae dalla borsa la mela marca Melissa, che aveva conservato per pranzo, enorme, turgida, quasi tonda, liscia, lucida e totalmente inodore, e la ripone nell’armadietto, in cui si conserverà incorruttibile per mesi.
Le mele della cesta sono state staccate da un albero grosso e nodoso, più vecchio di lei, ai margini di un campo di collina, non hanno ricevuto alcun pesticida e si sono affidate solamente al sole, al vento e alla pioggia.
La mela col bollino è cresciuta su un graticcio, da un ramo grande come un pollice, nutrito a forza da un tubo che rilascia goccia a goccia acqua e fertilizzanti, ha subito cinquanta trattamenti con una quindicina di fitofarmaci ed è stata infilata in una cella frigorifera con atmosfera controllata appena dopo la raccolta.
Profumo e sapore sono parenti. Le mele dell’orto infatti, a ogni morso, riempiono la bocca di aromi di rara persistenza, quelle da agricoltura intensiva non hanno semplicemente alcun gusto. Perché le sostanze aromatiche fanno parte del metabolismo primario della pianta che, se non la si aiuta, si aiuta da sola, producendo dovizia di elementi nutritivi e odorosi. La mela coccolata da acqua, sali e veleni invece cresce ma non matura.
Martina affonda i denti nel piccolo frutto bitorzoluto e mastica scuotendo la testa, persuasa che la maggior parte dell’umanità non abbia alcuna speranza, almeno rispetto al sapore.
Da La Stampa del