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Non è Natale se non c’è capitone e mostarda

Il pranzo di Natale da sempre è legato alla preparazione di qualcosa di celebrativo, a una specialità. Se il cibo pregiato rimanesse un’eccezione, legato cioè a una ricorrenza che è altro dalla quotidianità, sarebbe sostenibile sia per l’ambiente che per le tasche. Questo è il motivo per cui il pranzo della Vigilia è uno dei pochi momenti dell’anno in cui mi concedo il “fois gras”. E similmente credo che ostriche selvagge, tartufi e perfino il filetto di vitella non vadano banditi ma semplicemente consumati raramente, con responsabilità e consapevolezza.

Per mia nonna non era Natale se mancava sulla tavola il capitone marinato con la mostarda di Cremona. La grossa anguilla femmina, simile al serpente, simbolo del male, si consuma in maniera rituale per scongiurare le sventure. E rituale e pagana è la procedura con cui viene sacrificato l’animale, pulito, infarinato, fritto in abbondante olio di semi, sgocciolato, salato e messo a riposare per tre giorni in una marinata composta di aceto, cipolle, salvia, buccia di limone, bacche di pepe e di ginepro. La mostarda di Cremona artigianale invece, composta di frutta varia caramellata con abbondante senape in grani, è sempre più difficile da trovare, e forse non aggiunge nulla a un piatto già agrodolce. Ma, si sa, la tradizione non ammette ragioni. Così come non segue la ragione ma la religione la rivisitazione odierna di questo piatto con le “ceche”, carissimi e in Italia vietati, avannotti di anguilla, acquistabili in Spagna col nome di “angulas”, che ci ricordano che le nostre radici culturali sono legate all’uccisione dell’agnello e non allo spargimento di petali di rosa.

Da La Stampa del