La miglior maniera di comprendere la realtà è osservarla da lontano.
Dai sentieri di un’isola senz’acqua in mezzo all’Egeo ho potuto ragionare più lucidamente sull’ondata di caldo che ha investito l’Italia e che causerà siccità e carestia, più che perdita di ore di sonno.
Ho camminato chilometri armato di “xilaguro”, una cucurbitacea eccezionalmente aromatica da sempre nella sporta dei pastori locali, che si idratavano con questo frutto capace di immagazzinare liquidi sebbene non venga mai annaffiato.
Anche gli zucchini sull’isola sono dolcissimi, i pomodori hanno buccia spessa ma polpa profumata, la “fava”, antico legume, nutre come una bistecca, le patate sono sode e sanissime, le cipolle fragranti, l’aglio gentile e l’origano balsamico. Perché sono tutti coltivati in aridocoltura, senz’acqua.
I muretti a secco trattengono l’umidità notturna, che gli scalzi attorno ai vegetali concentrano verso il fusto, e i semi sono stati selezionati da generazioni per adattarsi a queste condizioni avverse e garantire un surplus di sapore e di energia, a scapito delle dimensioni e della varietà di ortaggi.
Non è fantascienza. A Pantelleria, per secoli, si è prodotto nella medesima maniera.
Visto che l’agricoltura intensiva incide per il 20% sul cambiamento climatico, e che oggi richiede addirittura un’irrigazione più generosa a causa del clima che essa stessa contribuisce a rendere più secco, forse bisognerebbe tornare a sistemi del cibo più locali o, quantomeno, basati, anche per le colture di massa, su questi antichi semi.
Ma la responsabilità di modificare le abitudini insostenibili è anche individuale e se i turisti sulla mia isola deserta continuano a pretendere arance, albicocche e angurie, dobbiamo preparaci a un futuro di cibi sintetici in pastiglia.
Da La Stampa del